venerdì 8 giugno 2012

Chesterton

Puo' darsi che il nome non l'abbia scritto esatto...Ma si puo' correggere...Chesterton. Un inglese. Uno scrittore critico della societa', ma indulgente perche' disposto a perdonare purche' si cambi. Una persona che era stata qualificata un imbecille o un genio quand'era piccolo dal suo medico, ma che poi dopo la crisi sui 22 anni, ricuperata la sua personalita' e messo a fuoco i suoi problemi si apri' ad una capacita' di umanesimo e di cristianesimo e di cattolicesimo cosi' autentica e profonda che divenne lui stesso un tesoro per chi lo lesse nei suo scritti, lo stesso Gramsci nella sua prigionia lo legggeva, e si guadagno' cosi' la stima del mondo di allora e di oggi...Mi disse un mio caro amico che forse introdurranno la causa di Beatificazione di questo valido cristiano e ottimo scrittore.
Da giovane ho letto con gusto i suoi racconti su Padre Brown. Mi piacquero assai e mi torna gradito il fatto che l'editrice San Paolo, attraverso Famiglia Cristiana lo riproponga alla lettura delle persone che amano le belle cose. Ecco perche' avendo ricevuto in regalo da detta editrice un racconto di Padre Brown mi permnetto - e faccio cosi' propaganda ad essa - di mandarlo in onda sul mio blog: cosi' potro' averlo sempre a disposizione nei momenti monotoni o tristi e rallegrarmene un po'...Anche tu?...

Adatto per racconti polizieschi



LA CROCE AZZURRA


Tra il nastro argenteo dell’alba e l’abbagliante striscia
del mare, il battello toccò harwich e lasciò la gente libera
come uno sciame di mosche in mezzo al quale l’uomo
che dobbiamo seguire non era un punto rilevante né
desiderava esserlo. Non mostrava nulla di particolare,
tranne un leggero contrasto tra la festosità del vestito
da persona in vacanza e l’autoritaria serietà del volto.
Indossava una giacca leggera di un color grigio pallido,
un panciotto bianco e un cappello di paglia argentea con
un nastro azzurrogrigio. Il suo viso magro, che appariva
scuro per contrasto col colore dei vestiti, terminava in
una barbetta nera di taglio spagnolo che faceva pensare
a un possibile collare elisabettiano. Fumava una
sigaretta con l’aria seria di chi non ha nulla da fare, e
non mostrava alcun indizio che potesse svelare come
la sua giacca grigia nascondesse una rivoltella carica, il
*

panciotto bianco una tessera della polizia e il cappello di
paglia coprisse uno dei più poderosi cervelli d’Europa.
Era Valentin in persona, il capo della polizia di Parigi
e il più famoso investigatore del mondo; arrivava da
Bruxelles per spostarsi a Londra ed eseguire il più clamoroso
arresto del secolo.
Flambeau era in Inghilterra. La polizia di tre nazioni
aveva finalmente scoperto le tracce del grande delinquente,
da Gand fino a Bruxelles e da Bruxelles a hook,
in Olanda; si supponeva che approfittasse della confusione
per l’inaugurazione del Congresso Eucaristico che
aveva allora luogo a Londra. Probabilmente viaggiava
come semplice impiegato o segretario appartenente al
Congresso ma, naturalmente,Valentin non poteva esserne
certo; nessuno poteva essere certo di quello che
avrebbe fatto Flambeau.
Sono trascorsi molti anni, ormai, da quando questo
colosso della delinquenza ha smesso di tenere il mondo
con il fiato sospeso. Quando si ritirò, si dice dopo
la morte di Rolando, ci fu grande pace sulla terra. Nei
suoi giorni migliori (intendo, naturalmente, i peggiori)
Flambeau era però una personalità monumentale e internazionale
che si poteva paragonare al Kaiser. Quasi
tutte le mattine i giornali annunciavano che si era sottratto
alle conseguenze di qualche straordinario delitto
commettendone un altro. Era un guascone di statura

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 gigantesca e di grande coraggio fisico; si raccontavano
di lui le più inverosimili storie sugli sfoghi della sua
prestanza atletica, su come avesse messo a testa in giù il
juge d’instruction, per «fargli schiarire le idee», su come
avesse corso giù per la Rue de Rivoli con una guardia
sotto ciascun braccio. Bisogna riconoscere, però, che
usava questa sua fantastica forza fisica quasi sempre in
queste scene poco dignitose ma incruente; i suoi veri delitti
erano principalmente ingegnosi furti su vasta scala.
Ogni suo furto era però una nuova trovata criminale e
avrebbe potuto formare una storia a sé. Era stato lui a dirigere
la grande Società delle Latterie Tirolesi di Londra,
senza bisogno di latterie, di mucche, di carri o di latte,
servendo qualche migliaio di clienti sottoscrittori con
questo semplice mezzo: portando i recipienti del latte
dalle porte dei clienti degli altri alle porte dei suoi clienti.
Tuttavia una caratteristica di molte delle sue trovate
era un’incredibile semplicità. Si dice che una volta egli
avesse ridipinto durante la notte tutti i numeri di una
strada per far cadere in un tranello un viaggiatore. È
certo che inventò una buca per le lettere trasportabile che
metteva agli angoli delle vie nei sobborghi più tranquilli
per approfittare di coloro che imbucavano cartoline-vaglia
o altri valori. Infine era riconosciuto come acrobata
straordinario; nonostante il suo corpo colossale poteva
saltare, infatti, come una cavalletta e sparire tra i rami di

***

un albero con l’agilità di una scimmia. Perciò il grande
Valentin, quando si era messo alla ricerca di Flambeau,
sapeva benissimo che le sue avventure non sarebbero
finite neppure se fosse riuscito a scovarlo.
Ma come trovarlo? Su questo punto le idee del grande
Valentin erano ancora in formazione.
Fatto è che Flambeau, per quanto abile nel travestirsi,
non poteva nascondere un suo particolare, e cioè la
statura non comune. Se l’occhio attento di Valentin si
fosse posato su un’alta venditrice di frutta, su un soldato
dei granatieri o, perfino, su una duchessa molto slanciata,
avrebbe potuto arrestare di colpo questa gente;
ma lungo tutto il treno non c’era nessuno che potesse
somigliare a un Flambeau travestito, più che un gatto
a una giraffa camuffata. Quanto alla gente del battello,
s’era già rassicurato; i viaggiatori, poi, presi ad Harwich
o lungo il viaggio non erano certamente più di
sei persone, e cioè un piccolo impiegato delle ferrovie,
che proseguiva fino alla fine della corsa; tre ortolani
alquanto bassi di statura saliti due stazioni dopo; una
piccolissima vedova che veniva da una cittadina dell’Essex
e un prete cattolico-romano di statura bassa che
veniva da un villaggio dell’Essex. Circa quest’ultimo,
Valentin non poté frenare un sorriso riflettendo alla sua
inutile investigazione, dato che quel piccolo prete pareva
l’essenza di quelle pianure dell’Essex; aveva il volto

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 rotondo e inespressivo come gli gnocchi di Norfolk, gli
occhi incolori come il Mare del Nord e recava parecchi
fagotti di carta scura che non riusciva a tenere insieme.
Il Congresso Eucaristico aveva senza dubbio tirato fuori
dalla morta palude locale molte di quelle creature, cieche
e inutili come povere talpe dissotterrate. Valentin
era uno scettico nel severo stile francese e non poteva
avere alcuna simpatia per i preti, ma gli potevano far
compassione, specialmente quello che aveva davanti,
che avrebbe destato la compassione di chiunque. Aveva
infatti un ombrellone logoro, che cadeva costantemente
per terra e pareva che non sapesse quale fosse la parte
del biglietto da mostrare per il ritorno. Spiegò, con l’ingenuità
di uno sciocco, che doveva stare molto attento
perché aveva roba d’argento vero «con pietre azzurre»,
in uno dei suoi pacchetti di carta bruna.
Quella curiosa mescolanza di stupidità essexiana e
santa semplicità divertì continuamente il francese fino
a che il prete non arrivò (come poté) a Stratford, con tutti
i suoi pacchetti, e ritornò poi indietro per prendere l’ombrello.
Allora Valentin ebbe perfino la bontà di avvertirlo
di non prendersi cura dell’argento in quel modo, rivelandolo
a tutti. Ma a chiunque Valentin parlasse, teneva
l’occhio aperto per qualcun altro; osservava con scrupolo
chiunque si presentasse al suo sguardo, povero o ricco
che fosse, maschio o femmina che si avvicinasse ai sei

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piedi di altezza, perché Flambeau superava di quattro
pollici i sei piedi.
Scese così a Liverpool Street pienamente sicuro di
non aver lasciato passare inosservato quel delinquente,
almeno fin là. Andò a Scotland Yard per mettere in regola
le sue carte e disporre di aiuti in caso di bisogno e,
dopo questa visita, accese la sigaretta e se ne andò per
una lunga passeggiata attraverso le vie di Londra.
Mentre percorreva strade e attraversava piazze oltre la
stazione vittoria, si fermò improvvisamente a guardare.
Si trovava in una tranquilla piazzetta tipicamente londinese,
piena, per caso, di un gran silenzio. Le alte case
intorno, dalle facciate lisce, apparivano insieme sontuose
e disabitate; il quadrato verde del centro sembrava
deserto come un’isoletta dell’oceano Pacifico. Uno dei
quattro lati della piazza era molto più alto degli altri,
come su un palco una tavola d’onore, e la linea delle
case da questo lato era spezzata da una delle ammirevoli
sorprese di Londra: un ristorante che sembrava essersi
sbandato da Soho.
Era insieme irragionevole e attraente con quei vasi di
piccole piante rustiche e le lunghe tende a righe gialle e
bianche. Posto a una certa altezza dalla strada, nel modo
caratteristico londinese, che offre le cose aggiustate alla
meglio, si saliva direttamente dalla strada al suo ingresso
mediante una scala esterna simile a quelle di salvataggio

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 che usano i pompieri; una scala che appariva come appoggiata
alla finestra di un primo piano. Valentin, fermo
davanti alle tende gialle e bianche, fumava e meditava.
Il fatto più incredibile nei miracoli è che accadono
veramente. Alcune nuvole in cielo si fondono veramente
insieme e si trasformano in un occhio umano che guarda
fisso. Un albero sorge nel paesaggio di un villaggio
incerto nella forma precisa e complicata di un punto
interrogativo. Io stesso ho visto entrambe queste cose
in questi ultimi giorni.
Così Nelson muore proprio al momento della vittoria;
un uomo chiamato William, Guglielmo, uccide per puro
caso un altro chiamato Williamson, figlio di Guglielmo,
il che sembra come una specie d’infanticidio. Insomma,
c’è nella vita un elemento di magica coincidenza, che
la gente, la quale fonda tutto sulla realtà normale, può
anche non rilevare mai. Come è stato magistralmente
espresso nel paradosso di Poe, la saggezza deve pur fare
i conti con l’imprevisto.
Aristide Valentin era profondamente francese; e
l’intelligenza francese è specialmente e solamente intelligenza.
Non era «una macchina che pensa», perché
questa è una frase stupida del fatalismo e materialismo
moderno. Una macchina è tale appunto perché non
può pensare; ma lui era un uomo che pensava ed era,
insieme, un uomo semplice. Tutti i suoi meravigliosi

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successi, che sembravano miracoli, erano puro frutto e
risultato di tenacissima logica e di chiaro e ragionevole
pensiero francese. I francesi elettrizzano il mondo non
col dar vita a un paradosso, ma presentando semplicemente
una verità di per se stessa evidente; e spingono
una verità alle estreme conseguenze, come nella rivoluzione
francese. Ma appunto perché Valentin conosceva
il valore della logica, ne vedeva anche i limiti. Come
chi non sa nulla di motori può parlare di farli andare
senza benzina, così solo chi non s’intende di logica può
sostenere di essere ragionevolmente logico senza saldi
e incontestabili fondamenti.
A Valentin, in quel caso, mancavano gli elementi di
base. Le tracce di Flambeau si erano perse ad Harwich e
questo significava che, se in quel momento era a Londra,
poteva benissimo figurare in qualsiasi veste: mostrandosi
come un grande vagabondo a Wimbledon Common,
come un alto anfitrione all’Hôtel Métropole. Così, non
sapendo assolutamente nulla, Valentin aveva un modo
di vedere e agire tutto suo.
In casi simili faceva affidamento sull’imprevisto.
Quando non poteva seguire il filo logico della ragione,
seguiva freddamente e accuratamente il filo dell’inverosimile.
Invece di andare nei luoghi opportuni – banche,
questure, rendez-vous – andava sistematicamente nei
luoghi impropri; bussava a tutte le case vuote, frugava

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 tutti i fondi dei sacchi, risaliva i vicoli ingombri di immondizie,
girava ogni angolo che lo potesse mettere inutilmente
fuori strada.
Egli difendeva in modo rigorosamente logico questo
suo illogico procedimento. Diceva che per colui che
possedesse una traccia, questo suo metodo era il peggiore,
ma che se non si aveva alcun filo, era il metodo
migliore perché dava appunto la possibilità di mettere
in relazione qualche cosa strana che avesse colpito l’occhio
dell’inseguitore e l’occhio dell’inseguito. Da un
punto bisogna pur cominciare, ed è preferibile che sia
il punto dove è possibile che un altro si sia fermato. Un
che di strano non solo nella scala che saliva al ristorante,
ma nel silenzio e nella tranquillità del ristorante stesso,
destò tutta la fantasia raramente romanzesca del detective
e lo decise a tentare il caso. Salì quindi la scalinata,
e, sedutosi a un tavolino accanto alla finestra, ordinò
una tazza di caffè.
Poiché era la metà del mattino e non aveva ancora
fatto la prima colazione, i rimasugli di altre colazioni sul
tavolino gli ricordarono che aveva fame; allora ordinò
anche un uovo fritto; poi versando lo zucchero nel caffè,
seguì col pensiero Flambeau. Ricordò come Flambeau
fosse scappato, una volta, per mezzo di un paio di forbicine,
e un’altra incendiando una casa; un’altra ancora
pagando per una lettera tassata e di nuovo facendo guar

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dare alla gente, attraverso un telescopio, una cometa che
avrebbe potuto distruggere il mondo.
Egli considerava il suo cervello di poliziotto immaginoso
e fertile quanto quello del delinquente; ed era vero.
Ma sapeva anche di trovarsi in condizione di svantaggio.
«Il criminale è l’artista creatore; il detective soltanto il
critico», si disse con un sorriso amaro, e accostò lentamente
la tazza del caffè alle labbra; ma la ripose in
fretta: aveva messo del sale nel caffè. Osservò allora
il recipiente dal quale aveva tolto l’argentea polvere, e
vide ch’era senza dubbio una zuccheriera, destinata allo
zucchero come una bottiglia di champagne allo champagne.
Ma perché vi tenevano il sale, invece? Guardò
intorno se vi fossero delle saliere. Sì, ve n’erano due
piene. Forse era un sale speciale quello delle saliere.
Per accertarsene, lo assaggiò: era zucchero. Allora il
suo sguardo girò per il ristorante, ravvivato da maggiore
interesse; per vedere se vi fossero altre tracce di quel
singolare gusto artistico di mettere lo zucchero nelle
saliere e il sale nelle zuccheriere.
Tranne una macchia strana di liquido oscuro sulla tappezzeria
di carta di una delle pareti, non vide alcunché
di strano; il luogo appariva lindo, allegro, normale.
Suonato il campanello, quando il cameriere accorse
alla chiamata, con i capelli ricciuti e gli occhi ancor
assonnati per l’ora mattutina, l’investigatore il quale
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non mancava di apprezzare le forme più semplici
dell’umorismo) gli chiese di assaggiare lo zucchero per
constatare se fosse degno della fama del ristorante. La
domanda ebbe questo risultato: il cameriere sbadigliò
e si svegliò di colpo.
«Fate questo scherzo ogni mattina ai vostri clienti?»,
domandòValentin. «Mettere il sale al posto dello zucchero
non diventa uno scherzo noioso?».
Il cameriere, colta l’ironia, assicurò, balbettando, che
il personale del ristorante non aveva certamente simili
intenzioni e che il fatto era dovuto certamente a un curiosissimo
sbaglio. Prese in mano la zuccheriera e l’esaminò;
prese in mano la saliera, l’osservò bruscamente e
corse via. Pochi secondi dopo ritornò in compagnia del
proprietario, il quale esaminò anch’egli la zuccheriera e
la saliera, mostrando a sua volta la stessa aria sbalordita.
Improvvisamente il cameriere parve divenire balbuziente
del tutto per la foga delle parole.
«Credo», balbettò eccitato, «credo che siano stati i
due preti».
«Quali preti?».
«I due preti», rispose il cameriere, «che gettarono la
zuppa contro la parete».
«Gettarono la zuppa contro la parete?», ripeté Valentin,
certo che quella fosse qualche metafora italiana.
«Sì, sì», disse il cameriere con crescente eccitazione,

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e indicò la macchia oscura sulla carta bianca. «La gettarono
là, sulla parete».
Valentin rivolse uno sguardo stupito e interrogativo
al proprietario, che gli diede subito maggiori particolari.
«Sì, signore», disse quello, «è proprio così, benché
io supponga che il fatto non abbia nulla a che fare con
quello dello zucchero e del sale. Due preti sono venuti
stamattina molto presto e hanno preso una zuppa, qui,
appena aperto il locale. Erano tutt’e due persone tranquille
e rispettabili; uno di essi pagò il conto e uscì;
l’altro, che sembrava di carattere molto più flemmatico,
si trattenne qualche minuto per raccogliere la sua roba.
Ma alla fine uscì; però, al momento di uscire, prese
deliberatamente la sua tazza, che aveva vuotata a metà,
e ne lanciò il contenuto contro la parete. Io mi trovavo
nella stanza interna, col cameriere; così quando accorsi
trovai la parete macchiata e il locale vuoto. Non era un
gran danno, ma era un atto di una sfacciataggine straordinaria:
allora tentai di raggiungere i due sulla strada,
ma erano già troppo lontani; osservai che svoltavano
all’angolo di via Carstairs».
Prima che il proprietario finisse, il detective era già
in piedi, il cappello in testa e il bastone in mano. Aveva
già deciso, all’oscuro di tutto, di seguire, non potendo
fare altro, quel primo strano barlume indicatore; un
barlume davvero strano. Pagato il conto e sbattuta la

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porta dietro di sé fu, in un momento, all’angolo della
strada indicata.
Era così ben dotato che, perfino in simili momenti
febbrili, il suo occhio rimaneva freddo e pronto. Poiché
nella vetrina di una bottega gli era saltato all’occhio,
come un fulmine, qualcosa strano, tornò indietro per
vedere cosa fosse. Si trovò davanti a un negozio di frutta
e verdura; il negozio aveva una mostra di merce esposta
sulla soglia e, sulla merce, dei cartellini con nome e
prezzo degli articoli. In due ceste, più sporgenti delle
altre, c’erano arance e noci. Sul mucchio delle noci stava
un cartellino con la scritta, segnata a grossi caratteri
con gesso azzurro: «Le migliori arance tangerine, due
per un penny». Sulle arance una scritta, ugualmente
chiara e precisa, diceva: «Le più fini noci del Brasile,
4 pennies alla libbra».
Valentin, osservati i due cartoncini, ricordò di aver
già visto di recente qualcosa di simile, una forma di
umorismo molto sottile. Richiamò allora l’attenzione del
fruttivendolo dalla faccia rossa, che volgeva lo sguardo
con una certa solennità su e giù per la strada, sulla scarsa
accuratezza dei suoi cartelli. Quello non disse nulla, ma
tolse e ripose lestamente ciascun cartello al suo posto.
L’investigatore, appoggiandosi elegantemente sul bastone,
continuò a esaminare il negozio. Alla fine disse:
«Scusate la mia apparente impertinenza, caro signore,

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ma vorrei rivolgervi una domanda di psicologia sperimentale,
che riguarda l’associazione di idee».
Il bottegaio dalla faccia rossa lo fissò con uno sguardo
minaccioso, ma l’altro continuò gaiamente, dondolandosi
sul bastone: «Perché due cartelli posti fuori luogo nel
negozio di un fruttivendolo possono assumere la forma
di un cappello da prete venuto a Londra per un giorno di
festa? Cioè, se non sono abbastanza chiaro, quale mistica
associazione corre tra l’idea di noci segnate come arance
e quella di due preti, uno alto e l’altro basso?».
Gli occhi del bottegaio si sporsero dalle orbite come
quelli di una lumaca; parve, a un punto, ch’egli stesse
per lanciarsi sul forestiero. Alla fine balbettò, irato: «Io
non so cosa abbiate a che fare voi in tutta questa faccenda,
ma se siete loro amico, potete dire a quei signori, da
parte mia, che romperò loro la testa, siano preti o no, se
rovesceranno nuovamente le mie mele».
«Davvero?», domandò il detective con grande interesse.
«vi hanno rovesciato le mele?».
«È stato uno di loro», scattò il fruttivendolo, accalorandosi;
«le ha sparse per tutta la strada. Avrei acciuffato
quell’imbecille se non avessi dovuto badare a
raccoglierle».
«Da quale parte sono andati quei preti?», chiese Valentin.
«Su per la seconda via a sinistra, e poi hanno attraversato
la piazza», rispose l’altro prontamente. «Grazie»,

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disse Valentin, e sparì come per incanto. Dall’altra parte
della seconda piazza trovò un poliziotto, al quale disse:
«Commissario, una cosa urgente: avete visto passare
due preti?».
Quello si mise a ridere rumorosamente.
«Li ho visti; e se volete sapere, vi dirò che uno era
ubriaco. Si era fermato nel mezzo della strada, così
rintronato che…».
«Da che parte sono andati?», l’interruppeValentin,
bruscamente.
«Sono saliti su uno di quei bus là», rispose la guardia,
«in uno di quelli che vanno ad Hampstead».
Valentin porse la sua tessera di riconoscimento e disse
rapidamente: «Chiamate due agenti che mi aiutino
a seguire le tracce dei due preti», e attraversò la strada
con un’energia così contagiosa che il grosso poliziotto
gli tenne dietro quasi con agilità.
Un minuto dopo l’investigatore francese era raggiunto,
sul marciapiede opposto, da un ispettore di polizia
seguito da un agente in borghese.
«Bene, signore», incominciò l’ispettore con un sorriso
di importanza, «che cosa posso…».
Valentin rispose, accennando col suo bastone: «ve lo
dirò sull’imperiale di quel bus», e si lanciò insinuandosi
tra il garbuglio del traffico. Quando tutti e tre, ansanti,
si trovarono seduti sull’imperiale del veicolo giallo,

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l’ispettore disse: «Avremmo potuto andare quattro volte
più in fretta con l’automobile».
«È vero», rispose Valentin placidamente, «se però
avessimo un’idea di dove andiamo».
«Ebbene, dove andate?», chiese l’altro, guardandolo
stupito.
Valentin continuò a fumare in silenzio per qualche
secondo; poi, tolta la sigaretta di bocca, disse: «Se si sa
quello che un uomo sta per fare, lo si precede; ma se si
vuole indovinare ciò che farà, bisogna tenergli dietro,
e voltare quando egli volta, fermarsi quand’egli si ferma,
andare a passo con lui. Allora si può vedere quello
ch’egli ha veduto e si può agire com’egli ha agito. Il
meglio che si possa fare è di tenere gli occhi ben aperti,
in attesa di qualche avvenimento imprevisto».
«Di che genere d’avvenimenti parlate?», domandò
l’ispettore. «Qualunque genere di cose strane», rispose
Valentin, e ricadde in un silenzio ostinato.
Il bus giallo s’arrampicò per le strade dei quartieri settentrionali
per un tempo che parve interminabile; il grande
detective non voleva dare maggiori spiegazioni e forse i
due suoi assistenti sentivano crescere in quel silenzio il
dubbio sull’utilità di quella corsa. Forse sentivano pure, in
quel silenzio, crescere il desiderio della colazione, poiché
era trascorsa da parecchio l’ora solita e le lunghe strade
dei sobborghi al nord di Londra sembravano distendersi

****

 l’una dopo l’altra nello spazio, come un telescopio diabolico.
Un viaggio, insomma, che dava perpetuamente
l’impressione che ci si dovesse trovare finalmente al limite
dell’universo, mentre si era soltanto al principio di
Tufnell Park. Londra pareva dissolversi tra l’avvicendarsi
di osterie e malinconiche macchie di alberi, per poi rinascere
impensatamente in luminose nuove grandi vie
e alberi imponenti. Pareva di attraversare tredici diverse
città volgari in contatto tra loro. Ma benché il crepuscolo
invernale già incombesse davanti a loro sulla via, l’investigatore
parigino rimaneva a sedere silenzioso e vigile,
guardando i due lati della strada che lasciavano indietro.
Prima che oltrepassassero Camden Town, i due londinesi
erano quasi addormentati; alla fine si scossero bruscamente,
quando Valentin, balzato in piedi, batté le mani
sulle spalle d’entrambi e gridò al conduttore di fermare.
Si buttarono giù per la scaletta in strada, senza capire
il perché di quella discesa improvvisa; quando si guardarono
intorno per una spiegazione, videroValentin che
indicava trionfante una finestra che s’apriva sulla facciata
dorata e dall’aspetto sontuoso di una birreria, dalla
parte riservata come ristorante per persone di riguardo;
infatti recava la scritta Restaurant. Quella finestra, come
tutte le altre lungo il fabbricato, era di vetro smerigliato e
decorato, ma nel mezzo aveva una larga fenditura scura,
come un buco frastagliato nel ghiaccio.

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«Ecco, finalmente un indizio!», esclamò Valentin agitando
il bastone. «Quella finestra è rotta!».
«Quale finestra? Quale indizio?», domandò l’ispettore.
«Che cosa prova che quella finestra abbia qualcosa
in comune con le persone che cerchiamo?».
Valentin per poco non ruppe il bastone per la rabbia.
«Prove!», esclamò, « Questo qui cerca le
prove, adesso! Ma è naturale! Ci sono venti probabilità
contro una che non vi sia alcun nesso tra quella finestra
e quella gente. Ma che cos’altro possiamo fare? Non
vedete che dobbiamo o seguire un’assurda possibilità
o andare a casa a dormire?». Ed entrò furioso nel ristorante,
seguito dai suoi compagni. In breve si trovarono
seduti per una tarda colazione a una piccola tavola donde
potevano vedere la rottura a forma di stella nel vetro,
senza però che questo potesse, neppure dall’interno, servire
per alcuna informazione.
«Avete rotto il vetro della finestra, a quel che vedo»,
disse Valentin al cameriere mentre pagava il conto.
«Sì, signore», rispose quello chinandosi affaccendato
a contare la moneta spicciola, alla quale Valentin aggiunse
in silenzio una generosissima mancia.
Il cameriere si raddrizzò con composta ma evidente
animazione. «Ah, sì, signore», disse. «Una cosa molto
strana, quella, signore!». «Davvero? Raccontate», disse
il detective quasi con indifferenza.

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«Ebbene sono venuti qui due signori vestiti di nero»,
disse il cameriere, «due di quei pastori forestieri che ci
sono in giro ora. Dopo aver fatto una piccola colazione
poco costosa, uno di loro pagò ed uscì. L’altro stava per
uscire e raggiungere il compagno, ma io guardai nuovamente
il mio denaro e trovai che mi aveva pagato tre
volte di più. “Ehi!”, dissi a quello che stava per uscire,
“mi avete pagato troppo”. “Oh!”, rispose egli freddamente,
“davvero?”. “Sì”, dissi io, e presi il conto per mostrarglielo.
Mancò poco che mi venisse un accidente!».
«Che intendete dire?», chiese l’interlocutore.
«Ebbene, avrei giurato su sette Bibbie di avere scritto
quattro scellini sul conto; invece mi accorsi di aver segnato
quattordici scellini, chiari e precisi».
«E allora?», esclamòValentin avvicinandosi lentamente
ma con occhi di fuoco.
«Il pastore, sulla porta, disse serenamente: “Mi dispiace
di confondere i vostri conti, ma il di più vada
per la finestra”. “Quale finestra?”, dissi io. “Quella che
romperò ora”, fece, e ruppe quel vetro con l’ombrello».
I tre poliziotti mandarono un’esclamazione di meraviglia
e l’ispettore disse, a mezza voce: «Siamo forse in
cerca di qualche pazzo fuggito dal manicomio?».
Il cameriere continuò, con un certo piacere, la sua
ridicola storia.
«Io rimasi così istupidito per la sorpresa che per qualche

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minuto non potei far nulla. L’uomo, così, ebbe il tempo
di uscire e raggiungere il suo amico all’angolo. Poi proseguirono
talmente alla svelta lungo la via Bullock che non
potei raggiungerli, benché gli fossi corso dietro».
«via Bullock!», esclamò il detective, e corse in direzione
di quella strada con la stessa rapidità dei due che
egli inseguiva.
Il loro cammino si apriva ora tra nudi muri di mattoni
come gallerie; strade con poche luci e con minor numero
di finestre; strade che parevano costruite a caso, come
capitava. Scendeva la sera e non era facile neppure
per i poliziotti londinesi indovinare la direzione precisa
di quel cammino. L’ispettore, tuttavia, era quasi certo
che sarebbero sboccati in qualche punto di Hampstead
heath. Improvvisamente, una finestra sporgente, illuminata
a gas, ruppe l’oscurità come una lanterna a occhi di
bue; Valentin si fermò un momento davanti a una strana
botteguccia di dolci. Dopo un momento di esitazione entrò,
rimase in piedi tra i vistosi colori delle confetture e,
con aria imperturbabilmente seria, acquistò tredici sigari
di cioccolata, scegliendoli con cura. Si capiva che stava
preparando una domanda qualsiasi per attaccar discorso
con la padrona, ma non ne ebbe bisogno.
Una donna anziana, dal profilo angoloso, che era
nel negozio e aveva considerato l’aspetto elegante
dell’avventore con una certa indifferenza,
****
 parve svegliarsi con lo sguardo animato.
«Oh», disse quella, «se siete venuto per quel pacco,
l’ho già spedito!». «Pacco!», ripeté Valentin e a sua volta
guardò con aria interrogativa. «Intendo dire il pacchetto
che ha lasciato il signore… il signor prete».
«Per amor del cielo», esclamò Valentin, avanzandosi
verso di lei e manifestando per la prima volta ansietà, «per
amor del cielo, diteci esattamente ciò che vi è successo».
«Che volete», disse la donna con fare reticente, «i preti
vennero qui mezzora fa; acquistarono della menta, parlarono
un po’ e poi se ne andarono verso l’Heath. Qualche
minuto dopo, uno di loro torna indietro, entra e dice: “ho
lasciato qui un pacchetto?”. Io guardo dappertutto ma
non vedo nulla. Quello allora fa: “Non importa; ma se lo
trovate, fatemi il piacere di spedirlo per posta a questo
indirizzo”, e mi lascia l’indirizzo e uno scellino per il
mio disturbo. E benché avessi guardato dappertutto, ecco
che salta davvero fuori il pacchetto, e allora l’ho spedito
al luogo che mi ha detto. Non ricordo ora l’indirizzo:
era un certo luogo a Westminster. Ma siccome la cosa
pareva molto importante, ho pensato che forse la polizia
è qui per questo».
«Appunto per questo», disse Valentin brusco. «Hampstead
heath è qui vicino?».
****


«Avanti diritto, quindici minuti», disse la donna; «e vi
troverete all’aperto». Valentin si lanciò fuori dal negozio
e incominciò a correre. Gli altri lo seguirono trottandogli
dietro a malincuore.
La strada che percorsero di corsa era così stretta e
chiusa dalle ombre che quando uscirono improvvisamente
all’aperto, col vasto cielo di fronte, furono stupiti
che la sera fosse ancora così chiara e luminosa. Il cielo
formava una perfetta cupola di verde pavone sfumato
in oro, tra gli alberi sempre più bruni e l’orizzonte
violaceo. Dal luminoso e profondo verde del cielo traspariva
qualche stella, in un luccichio d’oro attraverso
l’orlo di Hampstead e la popolare bassura chiamata la
valle della Salute. Quelli che per far vacanza visitano
questo luogo non erano ancora del tutto scomparsi a
quell’ora, e alcune coppie sedevano ancora sulle panche
e apparivano come ombre informi; e qua e là qualche
ragazzo si dondolava strillando sull’altalena. La gloria
del cielo s’addensava e diveniva sempre più profonda
attorno alla sublime volgarità dell’uomo; però, stando
sul pendio e guardando attraverso la valle, valentin
scorse quello che cercava.
Tra i gruppi neri che si dividevano, a quella distanza,
ve n’era uno specialmente nero che non si divise,
un gruppo di due vestiti da prete. Benché apparissero
piccoli come insetti, Valentin poteva scorgere che uno


****

era molto più piccolo dell’altro. E benché l’altro avesse
l’andatura un po’ china e senza arie dello studioso,
poteva vedere chiaramente che quell’uomo era alto più
di sei piedi. Strinse i denti e avanzò agitando il bastone
con impazienza. Quando, fattosi più vicino, le due figure
nere ingrandirono come in un vasto microscopio,
vide un’altra cosa, un particolare che lo fece sussultare
nonostante il fatto che, in qualche modo, se l’aspettasse.
Chiunque fosse il prete alto, non vi era dubbio sull’identità
del più piccolo: era quello del treno di Harwich, il
piccolo tozzo curé dell’Essex a cui aveva raccomandato
di tenere da conto i pacchetti di carta scura.
E ora, fino a quel punto, tutto era ragionevolmente
spiegabile, anche se poteva sembrare strano a primo
impatto. Valentin era venuto a sapere quel mattino che
un certo Padre Brown dell’Essex aveva portato a Londra
una croce d’argento con zaffiri, una reliquia di considerevole
valore, per mostrarla ad alcuni preti stranieri,
al Congresso. Si trattava senza dubbio dell’«argento
con pietre azzurre» e Padre Brown era senza dubbio
lo sventatello e semplicione del treno. Ora non c’era
da sorprendersi se quello che Valentin era riuscito a
sapere era stato scoperto anche da Flambeau: Flambeau
scopriva tutto. Inoltre non vi era nulla di straordinario
nel fatto che, avendo Flambeau sentito parlare di una
croce di zaffiri, avesse pensato di rubarla; era la cosa

****

più naturale di tutta la storia naturale. Ed era ancor più
certo e naturale che Flambeau conducesse le cose a suo
piacimento, con un simile stupido agnello quale era
l’omino con ombrello e pacchetti. Chiunque avrebbe
potuto condurre al polo nord, attaccato a una cordicella,
un sempliciotto di quel tipo, e non c’era da meravigliarsi
che un attore come Flambeau, vestito anch’egli da prete,
lo potesse condurre fino ad Hampstead heath. Fino a
quel punto, l’azione del delinquente era ben chiara e
mentre il detective compiangeva il prete, per la sua ingenuità,
quasi disprezzava Flambeau che s’era abbassato a
una vittima così facile e meschina. Ma quandoValentin
ripensò a tutto quanto era successo durante la giornata,
a tutto quello che l’aveva condotto al trionfo, si frugò
invano il cervello per trovare una spiegazione plausibile,
un filo di ragione in quei fatti. Che cosa aveva a che fare
la zuppa gettata contro la parete col furto di una croce
di zaffiri a un prete dell’Essex? Quale nesso c’era tra le
noci e le arance, e il pagare prima per le finestre rotte
dopo? Egli era giunto alla fine dell’inseguimento ma
aveva perduto, in qualche modo, il mezzo con cui era
arrivato a quel risultato. Tutte le volte che non era riuscito
in una ricerca (il che avveniva molto di rado) aveva
sempre afferrato il filo logico di essa, pur non afferrando
il delinquente. Ora, invece, afferrava il delinquente ma
perdeva il filo conduttore.

****

Le due figure che stavano seguendo s’arrampicavano
come due mosche nere sul dorso verde di una collina.
Evidentemente erano assorte in una conversazione, e
forse non osservavano neppure dove andavano, ma erano
certamente dirette alle colline più solitarie e peggio
frequentate di Heath. A mano a mano che gli inseguitori
guadagnavano terreno, erano costretti alle attitudini poco
dignitose del cacciatore di daini, ad appiattarsi dietro gli
alberi o a trascinarsi sull’erba.
Con questi mezzi poco piacevoli, i cacciatori s’avvicinarono
alla loro preda così da poter udire il mormorio
della conversazione (ma senza distinguere alcuna parola,
tranne quella di «ragione», ripetuta spesso da una voce
alta, quasi infantile). A un punto, per una brusca insenatura
della collina e per un groviglio di alti cespugli,
gli investigatori persero completamente di vista le due
figure. Per una decina di angosciosi minuti cercarono i
due fuggitivi e li ritrovarono poi che salivano intorno
al culmine della collinetta, dal quale si scorgeva l’anfiteatro
vasto e desolato del tramonto del sole. Sotto un
albero di quel luogo, dominante ma solitario, si trovava
una vecchia malferma panchetta di legno. I due preti vi
si sedettero continuando la loro conversazione.
Il magnifico verde-oro copriva ancora il lontano
orizzonte che continuava a imbrunire, ma la cupola del
cielo si mutava lentamente da verde-pavone in azzurro

****

pavone, e le stelle si staccavano sempre più come solidi
gioielli. Facendo un cenno muto ai suoi compagni,
Vlentin riuscì a trascinarsi fin dietro al grande albero
frondoso che sovrastava alla panchetta e, in piedi, in un
silenzio profondo, poté udire per la prima volta quello
che dicevano gli strani preti.
Quando ebbe ascoltato per alcuni minuti fu preso da
un dubbio diabolico. Forse aveva trascinato i due poliziotti
inglesi in quella deserta brughiera per uno scopo
insano come quello di cercare fichi sui rovi. I preti discutevano
proprio come due veri preti, piamente, con
sapienza e a loro agio, dei più minuti problemi della teologia.
Il piccolo prete dell’Essex parlava nella maniera
più semplice, con la sua faccia rotonda volta alle stelle
sempre più luminose, l’altro parlava con la testa china,
come se non fosse neppure degno di guardarle. Una conversazione
più innocentemente clericale di quella non
poteva essere udita in alcun candido chiostro italiano,
né in alcuna oscura cattedrale spagnola.
Udì prima la fine di una frase di Padre Brown che diceva:
«… appunto quello che intendevano nel Medioevo
per incorruttibilità dei cieli!».
Il prete più alto fece un cenno del capo chino e disse:
«Ah, sì! Questi infedeli moderni fanno appello alla
loro ragione; ma chi può guardare a questi milioni di
mondi e non sentire che vi possono ben essere degli

****

universi meravigliosi al di sopra di noi, dove la ragione
è assolutamente irragionevole?».
«No», oppose l’altro prete, «la ragione è sempre
ragionevole, anche nell’ultimo limbo, anche al limite
ultimo delle cose. So bene che si accusa la Chiesa di
abbassare la ragione, ma è il contrario, invece. Sola
sulla terra la Chiesa fa la ragione veramente suprema.
Sola sulla terra la Chiesa afferma che Dio stesso è legato
alla ragione».
L’altro prete alzò il volto austero al cielo stellato,
e disse:
«Però, chi sa se in quell’infinito universo…?».
«Soltanto fisicamente infinito», l’interruppe il piccolo
prete, voltandosi in fretta sulla panca, «non infinito nel
senso che sfugge alle leggi della verità».
Valentin, dietro l’albero, si ficcava le unghie nella
carne per la stizza. Gli sembrava quasi di udire i velati
sorrisi di derisione degli investigatori inglesi che
aveva condotto così lontano, su una traccia fantastica,
solo per ascoltare chiacchiere metafisiche di due
miti e vecchi preti. Nella sua impazienza non udì la
risposta egualmente elaborata dal prete alto così che,
quando ascoltò nuovamente, era ancora Padre Brown
che parlava:
«La ragione e la giustizia comprendono in modo
inscindibile anche le stelle più remote e più solitarie.


****


Guardate quegli astri. Non sembrano veramente diamanti
e zaffiri? Ebbene, potete immaginare la più pazza e
assurda botanica e geologia. Pensate a foreste adamantine
con foglie di brillanti. Pensate che la luna non è altro
che un gioiello turchino, un unico zaffiro elefantino. Ma
non crediate che una così fantastica astronomia possa
influire minimamente sulla ragione e sulla giustizia della
condotta umana. Su pianure di opale, sotto declivi tagliati
nella pura perla, trovereste ancora un cartello con
la scritta: “Tu non devi rubare!”».
Qui Valentin fu sul punto di alzarsi dalla sua incomoda
e rigida posizione per allontanarsi quanto più silenziosamente
potesse, vinto dall’unica grande follia della
sua vita, quando qualcosa nel silenzio stesso del prete
più alto lo trattenne ad ascoltare fino alla sua risposta.
Quando alla fine parlò, disse semplicemente, con la testa
china e le mani sulle ginocchia:
«Ebbene, penso ancora che altri mondi possono elevarsi
più in alto della nostra ragione. Il mistero del cielo
è impenetrabile e io, per me, non posso fare altro che
chinare il capo».
Poi, con la fronte ancora china e senza mutare minimamente
né atteggiamento né voce, aggiunse:
«Fate il piacere di darmi quella vostra croce di zaffiri,
vi prego. Siamo completamente soli qui e vi potrei fare
a pezzi come un bamboccio di stoppa!».

****

La voce e l’attitudine per nulla mutate aggiungevano
una strana violenza allo straordinario cambiamento del
discorso, ma il custode della reliquia parve volgere soltanto
un po’ la testa. Pareva che avesse ancora il volto
stupito ed era immobilizzato dal terrore. «Sì», disse il
prete alto, con la stessa voce bassa e la stessa attitudine
tranquilla, «sì, io sono Flambeau». Poi, dopo una breve
pausa: «Dunque, volete darmi quella croce?».
«No», rispose l’altro, e il monosillabo aveva un’inflessione
strana.
Flambeau abbandonò improvvisamente tutte le sue
pretese pontificali: il grande ladro si abbandonò sulla
spalliera della panchetta e rise sommessamente ma scandendo
le parole:
«No, voi non volete darmela, fiero prelato che siete!
Non volete darmela, piccolo celibe sciocco. volete che
vi dica perché non volete darmela? Perché l’ho già nella
mia tasca interna».
L’omino dell’Essex volse verso l’altro il volto che nel
crepuscolo pareva attonito e disse, col timido ardore del
“segretario privato”:
«Ne siete… ne siete proprio sicuro?».
Flambeau ruppe in una grande risata.
«Siete veramente divertente, come una farsa in tre
atti», esclamò. «Sì stupido, ne sono proprio sicuro. Ebbi
il buon senso di fare un duplicato del vero pacchetto,

****
e adesso, amico mio, voi avete il duplicato e io ho i
gioielli. Un vecchio scherzo, Padre Brown, uno scherzo
molto, molto vecchio».
«Sì», disse Padre Brown, e si passò la mano tra i capelli,
con la stessa strana attitudine d’uomo assorto. «Sì,
ne avevo già sentito parlare».
Il colosso della delinquenza si chinò verso il rustico
pretuncolo con una specie d’improvviso interesse. «voi
ne avete sentito parlare?», domandò. «Dove ne avete
sentito parlare?».
«Beh, ascoltate, ma non devo certo dirvene il nome»,
rispose l’omino semplicemente. «Era un penitente, capite.
Aveva vissuto lautamente per circa vent’anni con
i duplicati dei pacchetti di carta bruna. E così, vedete,
quando incominciai a sospettare di voi, pensai alla maniera
di fare di quel povero diavolo».
«Incominciaste a sospettare di me?», ripeté il bandito
con crescente interesse. «Avete veramente avuto tanto
senno da sospettare di me perché vi ho condotto in questo
luogo solitario?».
«No, no», disse Padre Brown con un’aria di scuse.
«vedete, incominciai a sospettare appena vi incontrai;
per quel gonfiore leggero al braccio, sotto la manica,
dove alla gente come voi mettono il bracciale a punte».
«Per il diavolo», gridò Flambeau, «come mai avete
sentito parlare di braccialetti a punte?».

****

«Oh! Noi abbiamo il nostro piccolo gregge, sapete!»,
disse Padre Brown alzando un poco confusamente le sopracciglia.
«Quand’ero curato di Hartlepool, ve n’erano
tre che avevano i bracciali a punte. Per questo, vedete,
vi ho sospettato dal primo momento, e ho voluto essere
sicuro che, a ogni modo, almeno la croce fosse salva.
Credo di avervi ben sorvegliato, sapete. Così, alla fine,
vi vidi scambiare i pacchetti. Allora, capite, li ho rimessi
al loro posto. E poi ho lasciato il pacchetto giusto».
«Lasciato?», ripeté Flambeau manifestando per la
prima volta nella sua voce un accento diverso da quello
del trionfo.
«Ho fatto così», continuò il piccolo prete, seguitando
a parlare in modo semplice e tranquillo. «Sono tornato
a quel negozio di dolciumi e ho chiesto se vi avevo
lasciato un pacchetto; ho dato uno speciale indirizzo,
per il caso che l’avessero trovato. Sapevo bene che
non era lì, ma quando vi ritornai, lo lasciai. Così quel
prezioso pacchetto non mi ha accompagnato, l’hanno
spedito di volo al mio amico a Westminster». Poi aggiunse
con molta tristezza: «ho imparato anche questo
da un povero diavolo, adHartlepool. Faceva così con
le valigette a mano che rubava nelle stazioni ferroviarie,
ma egli è ora in un monastero. Oh! Si finisce per
imparare tante cose! Sapete», aggiunse fregandosi la
testa, con la stessa aria di volersi scusare ad ogni costo,

****

«Non possiamo fare a meno d’imparare, noi preti. La
gente viene e ci racconta queste cose».
Flambeau trasse da una tasca interna un pacchetto di
carta scura che fece a pezzetti. Non conteneva altro che
carta con verghette di piombo. Allora saltò in piedi con
un gesto da gigante e gridò:
«Non vi credo. Non credo che un semplicione come
voi abbia fatto tutto questo. Sono certo che avete ancora
l’oggetto su di voi, e se non me lo date… giacché siamo
soli ve lo prenderò per forza».
«No», disse semplicemente Padre Brown, e s’alzò
pure lui in piedi, «non lo prenderete per forza. Prima
di tutto, perché non l’ho veramente più, e poi perché
non siamo soli».
Flambeau si fermò sul punto di lanciarsi avanti.
«Dietro l’albero», disse Padre Brown puntando l’indice,
«vi sono due robusti poliziotti e il più grande detective
vivente. Direte: come sono venuti qui? Beh, li
ho condotti io, naturalmente. Come ho fatto? ve lo dirò,
se volete saperlo. Iddio vi benedica, noi siamo costretti
a sapere decine di cose simili, giacché curiamo anche i
delinquenti! Ebbene, io non ero proprio sicuro che foste
un ladro, e d’altra parte nel dubbio, non era bene suscitare
uno scandalo contro un membro del clero. Così vi
misi alla prova per vedere se vi sareste mostrato quale
siete. Per lo più accade che chi trova del sale nel caffè

****

si indigni e protesti; ma se non dice nulla, è segno che
ha le sue buone ragioni per starsene tranquillo. Così,
io misi il sale al posto dello zucchero, e voi restaste
tranquillo. Di solito un uomo protesta se il suo conto
è aumentato di tre volte, ma se lo paga è segno che ha
qualche ragione per passare inosservato. Così io alterai
il vostro conto e voi lo pagaste».
C’era da aspettarsi, dopo queste parole, che Flambeau
si lanciasse come una tigre; invece sembrava come
incantato, stordito oltremodo da grande curiosità
e meraviglia.
«E poi», continuò Padre Brown con pacata lucidità,
«siccome voi avevate cura di non lasciare tracce per la
polizia, naturalmente bisognava pure che ci fosse qualcuno
a prepararle. Perciò, in tutti i luoghi dove andammo,
ebbi cura di compiere degli atti che avrebbero fatto
parlare di voi per il resto della giornata. Non feci grandi
danni: lasciai un muro macchiato, delle mele rovesciate,
un vetro rotto; ma ho salvato la croce: la croce sarà
sempre salva. Ormai è a Westminster. Mi meraviglio
che non l’abbiate fermata con il “fischio dell’asino”».
«Come?», chiese Flambeau.
«Sono lieto che non ne abbiate sentito parlare», disse
il prete, facendo una smorfia. «È una brutta cosa.
vi credo ancora troppo buono per essere un cosiddetto
“fischiatore”».

****

«Ma di che cosa parlate?», domandò l’altro.
«Non importa, non importa che ve lo dica. Sono contento
che non siete ancora sceso proprio in fondo alla
china del male, perché altrimenti sapreste di che parlo».
«Ma come fate a sapere tante cose?», chiese ancora
Flambeau. L’ombra di un sorriso passò sul volto rotondo
del piccolo prete. «Oh! Sono cose che solo uno stupido
celibe qualunque può sapere, naturalmente», disse. «Non
avete mai pensato che un uomo, che non fa quasi mai
altro che ascoltare i peccati commessi dagli uomini, non
ha la probabilità di rimanere ignaro del male umano?
Ma, in verità, è stata un’altra parte della mia esperienza
professionale ad assicurarmi che non eravate un prete».
«Quale?», domandò il ladro quasi a bocca aperta.
«voi attaccaste la ragione», rispose Padre Brown.
«Questa è cattiva teologia».
E, come si voltò per raccogliere la sua roba, ecco i tre
investigatori apparire come ombre dietro l’albero. Flambeau
era in fondo un artista e uno sportivo. Indietreggiò
di qualche passo e fece un grande inchino aValentin.
«Non fate un inchino a me, mon ami», esclamò Valentin
con voce squillante. «Inchiniamoci entrambi al
nostro maestro». E tutti e due si scoprirono per un momento
davanti al piccolo prete dell’Essex, che cercava
con occhi semichiusi il suo ombrello.


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"uno scrigno da cui trarre «cose antiche
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con in comune il respiro dell’Assoluto".

l'ombrellaio di Padre Brown